Consigli per un ascolto

di Marco Ghilarducci

 

 

Una sera di primavera del 1986, quattordicenne, ero seduto in platea al Teatro Comunale di Bologna, in attesa dell’ingresso sul palcoscenico di Sviatoslav Richter (Zytomyr 1915 – Mosca 1997), interprete ucraino letteralmente leggendario e uno dei più grandi pianisti di sempre.

Richter, non più giovane ma ancora nel pieno della sua energia creativa, da qualche tempo aveva l’abitudine di suonare ai concerti con lo spartito davanti (quindi non a memoria, a differenza di quello che il solismo impone ai virtuosi da Liszt in poi), le luci di sala al minimo se non spente e una lampada vicino al pianoforte che ricreava in teatro un’atmosfera da salotto, dando l’impressione di essere nell’intimità di un’esecuzione privata.

Questo, nelle intenzioni del pianista, per due ragioni: lo spartito garantiva una aderenza assoluta alle intenzioni del compositore, portando al minimo le “interferenze” personali dell’interprete (cosa sublimemente contraddittoria nel caso di Richter, la cui enorme personalità artistica funzionava da prisma e detonatore di un’infinità di elementi potenziali e spesso inesplorati insiti nella pagina eseguita); la luce soffusa permetteva invece un azzeramento delle interferenze visive poste fra l’ascoltatore e la sostanza sonora, facendo svanire lo spazio circostante e rendendo individuale (solitaria) l’esperienza di ascolto per ognuna delle centinaia di persone sedute in teatro. Quella sera la prima parte era interamente dedicata alla sonata di Schubert D 894 in Sol maggiore, brano estremamente lungo e con un primo movimento lento, sinuoso, pieno di quegli ampi temi, variazioni e digressioni armoniche che Robert Schumann definirà “le divine lungaggini” di Schubert. Sprofondato nella mia poltrona, dopo i primi accordi ero già rapito in una dimensione sconosciuta e mai più sperimentata: lo spazio intorno era evaporato e un presente infinito scorreva lento come una corrente carsica nascosta sotto un fiume ghiacciato. Era né più né meno, ora lo so, che uno stato di trance, in cui il prima e il dopo del fluire della musica perdevano di senso, fondendosi in una unità coerente data dalla struttura della sonata: nella dimensione temporale della musica era l’equivalente dello sguardo che, abbracciando le singole parti di una tela, le ricompone all’istante “interpretandone” l’unità e accedendo così al pensiero del pittore. La fine del concerto, e i giorni seguenti, non coincisero con un completo risveglio da questo stato: una sorta di nebbia e di sonorità di sottofondo, fatta di lembi di melodie e accordi affastellati, mi accompagnarono, rendendo tutto ovattato intorno a me. Finalmente, tre giorni dopo, mi svegliai al mattino con una vera Epifania: l’intera sonata era chiara nella mia mente in ogni singolo particolare, ricomposta e mi sembrava di potervi accedere liberamente come guardando la cartina di un’ampia regione disegnata a volo di uccello. Racconto di questo piccolo, privatissimo prodigio per parlare di una virtù del pianista Richter, condivisa dai grandi interpreti della storia dell’Arte di qualsiasi campo e di qualsiasi tempo: egli infondeva letteralmente nell’ascoltatore la struttura di un brano musicale, servendosi delle sue strabilianti doti interpretative e tecniche. Prima fra tutte il suono: Richter affondava nei tasti come in una materia plasmabile, sollecitando i martelli in modo tale che questi, percuotendo le corde, restituissero una gamma di suoni impressionante, dai più morbidi ai più taglienti, dai più delicati ai più violenti e riuscendo spesso a dare a uno stesso suono due o più di queste caratteristiche.

Non si può spiegare ovviamente, in termini puramente meccanici, come avvenisse il miracolo; ma si può parlare di ciò che era osservabile da chi ha avuto la fortuna di osservarlo e di ciò che si può recuperare nei tanti video disponibili in rete: la mano protesa in avanti con le dita (dita larghissime!) come immerse fra i tasti bianchi e neri; il fenomenale gioco di polso e di spalle che permetteva le più diverse sollecitazioni della meccanica; il peso naturale che insisteva sulla tastiera e permetteva suoni che sembravano “timbri” impressi nell’aria; il pedale di risonanza, con il quale aumentava il suo naturale super legato, fondendo magistralmente alcuni suoni fra loro e dando quel senso di “un-suono-nell’altro” che era una sua cifra costante; il pedale di sordina (fatto apposta per attutire i suoni), usato in modo mai convenzionale e associato spesso a suoni con segno “fortissimo”…. Non basterebbe (e non sarebbe auspicabile) un libro per analizzare tutti gli aspetti esecutivi di Richter, come di ogni grande interprete.

Quello che è certo, ed è il senso di questa serie di consigli musicali, è che ascoltare e vedere un grande strumentista insegna a suonare, a sentire e ad ascoltare meglio, ad accedere ad una dimensione temporale ed estetica superiore, significa “studiare” l’arte quasi senza accorgersene, immersi nel piacere: qualcosa che il nostro tempo sta dimenticando in fretta e va conservato.

Buon ascolto e buona visione.

Marco Ghilarducci